Paninari anni ’80, lo stile intramontabile della Milano bene
Scritto da Valentina Codurelli il 24 Luglio 2023
Un fenomeno che ha segnato la Milano degli anni Ottanta, tra hamburger e abiti griffati
La moda paninara prese piede nella “Milano bene” all’inizio degli anni ’80. Il termine “paninaro” deriva dal nome del bar “Al panino”, locale del capoluogo lombardo, in zona San Babila, precisamente a piazza Liberty, in cui il primo gruppo di ragazzi nei primi anni ’80 si riunisce frequentemente e viene identificato da un particolare tipo di abbigliamento. In seguito, il punto di ritrovo cambia e diventa il fast food Burghy. Ironia della sorte, poco dopo quello spazio fu acquistato dal colosso Mc Donald’s.
Il movimento paninaro fu una diretta conseguenza della ripresa economica degli anni ’80. I ragazzi, ispirati in tutto dalla moda americana, rifiutavano gli aspetti angoscianti dell’esistenza per godersi la vita in maniera spensierata. Il nome “paninari” fu coniato in particolare da un giornalista del Corriere della Sera, che prese spunto proprio dal loro cibo preferito, il panino.
Si tratta di una generazione di giovani adolescenti che si discostano dai movimenti esistenti, dai metallari ai gruppi impegnati attivamente nel mondo della politica di destra o di sinistra, basandosi sull’edonismo, sulla ricerca del piacere di vivere senza privarsi di nulla, e puntando decisamente sull’apparenza; infatti, come si vedrà, la moda dei paninari anni ’80 non ha nulla a che vedere con quelle, ad esempio, dei figli dei fiori, bensì prevede capi costosi e griffati.
L’immagine dei paninari è senza dubbio all’insegna del consumismo, i ragazzini che ne fanno parte rappresentano i figli della borghesia medio alta della cosiddetta “Milano bene” che hanno la possibilità di spendere soldi per acquistare un certo tipo di abbigliamento.
Capo di culto è il piumino, rigorosamente imbottito, meglio se di colori sgargianti, firmato Moncler, Stone Island o Henry Lloyd, e, sotto il classico bomber, le felpe oversize tinta unita con il logo in evidenza (quasi sempre Best Company) con al polso l’iconico Swatch e in spalla lo zaino Invicta. I pantaloni, invece, sono inevitabilmente jeans, dell’intramontabile modello 501 Levi’s ad altri marchi, come Uniform, che oggi non esistono più, tutti con il risvoltino per far sì che si intravedano le calze a rombi Burlington e con in vita la cintura, con fibbia grande, di pelle El Charro. D’estate piumini e felpe lasciano spazio alle polo Lacoste o alle camicie (ad esempio Naj-Oleari, fantasia quadri o righe) e impazzano gli occhiali da sole, i famosissimi, ancora oggi, Ray Ban. Se è vero che l’abbigliamento paninaro è pressoché unisex, le ragazze (dette “sfitinzie” o “squinzie” che significa smorfiose) personalizzano il proprio stile con fiocchi tra i capelli, borse e toppe di stoffa sui jeans (Naj-Oleari o Fiorucci).
La distinzione tra cool e out per i paninari anni ’80 vale anche in relazione alle scarpe, accessorio fondamentale. Il primo posto è ricoperto, senza rivali, dalle Timberland (abbreviate in “Timba”), in particolare dagli stivaletti in pelle scamosciata del colore classico, tendente al giallo, che negli anni ’80 costavano circa 200.000 lire.
Fondatori anche di un linguaggio del tutto personale (sono da attribuire a loro parole come “squinzie”, per definire le ragazze, oppure inglesismi oggi diventati di uso comune, come “Il mio boy” e “Very original”), i paninari anni 80 divennero famosi in tutta la nazione anche grazie a riviste e fumetti a loro dedicati come “Il Paninaro” del comico Enzo Braschi e a film come “Italian Fast Food”.
Contribuirono alla diffusione del fenomeno, le ospitate di Enzo Braschi in ‘Drive In’, dove il Paninaro assume un aspetto mainstream e nobile, elevandosi grazie al linguaggio comico, e con fenomeni della letteratura italiana quali ‘Sposerò Simon Le Bon’ di Clizia Gurrado che, nato come diario e dato alle stampe nel 1985, diventerà presto il vero manifesto della generazione paninara (oltre che un film omonimo di grande successo nel 1986, con il sottotitolo ‘Confessioni di una sedicenne innamorata persa dei Duran Duran’).
Oppure, ancora, la diffusione della moda paninara si ebbe grazie alla celebre canzone Paninaro dei Pet Shop Boys, altro gruppo cult dei Paninari, appunto. Ed è proprio leggendo il testo di ‘Paninaro’ dei Pet Shop Boys che si può davvero comprendere l’anima vera di questa tendenza, capace di essere allo stesso tempo subcultura e mainstream.
Erano il bersaglio preferito degli “artisti”, di quelli che li consideravano ignoranti solo perché non si dichiaravano fan dei Beatles o dei Rolling Stones. Erano ripudiati dai metallari per il loro modo di parlare, per i loro interessi, per la musica che ascoltavano e perché erano considerati socialmente “vuoti” e privi di stimoli. Una contrapposizione di anime che, a volte, trovava nella città di Milano un terreno reale di scontro tra i diversi gruppi giovanili, documentato anche da riviste e telegiornali dell’epoca.
Come ogni tendenza, comunque, anche la linea della vita dei Paninari culminerà con la fine degli anni ’80, ma non prima di aver alimentato la diffusione di un certo tipo di cultura pop che ha visto in Milano la sua città capostipite.
Naturalmente la loro colonna sonora non poteva che essere “Wild Boys” dei Duran Duran.