C’era una volta il musicarello
Scritto da Valentina Codurelli il 12 Ottobre 2023
Il fenomeno de “Il musicarello” e degli “Urlatori”
Il musicarello è il nome, nato originariamente negli ambienti romani, di un sottogenere cinematografico italiano che ha due caratteristiche fondamentali: la prima consiste nel mettere in scena un cantante di fama e il suo nuovo album discografico; la seconda è il riferimento costante alla moda e alla gioventù, anche in versione vagamente polemica nei confronti del noioso e ingessato mondo degli adulti. Nelle trame vengono infatti affrontati in modo abbastanza convenzionale contrasti generazionali. Il film fotografa molte novità della società e del costume di quegli anni.
La formula che avrebbe portato questi film a un enorme successo commerciale era semplice. Veniva anzitutto rispettato formalmente il carattere ribellistico con il quale i giovani vivevano queste canzoni: le storie dovevano raccontare sempre la fede incrollabile in un mondo migliore e più sincero da parte dei giovani, anticonformisti e scanzonati, osteggiati in questo desiderio dagli adulti. Per evitare, però, che questo accenno di contestazione risultasse troppo esplicito, per sostenere le sceneggiature esili e per raggiungere un pubblico sempre più vasto, a interpretare gli adulti venivano chiamati caratteristi popolari noti anche al pubblico televisivo, nel ruolo di persone autoritarie ma disponibili al compromesso per il bene comune.
Alla base del musicarello c’è una canzone di successo (o destinata, nelle speranze dei produttori, ad averlo) che talvolta dà il titolo al film stesso. Il musicarello può infatti essere definito l’antesignano del videoclip musicale, un modo per portare al cinema gli adolescenti attratti non tanto dalla trama quanto dalle esibizioni dei cantanti. I film nascono infatti da accordi tra case discografiche e cinematografiche.
Secondo il critico cinematografico Steve Della Casa, il nome “musicarello”, già in uso all’epoca, farebbe il verso al più celebre Carosello, sottolineandone così l’aspetto pubblicitario senza dimenticare la presenza costante degli stessi protagonisti nelle pubblicità.
Il filone iniziò negli anni cinquanta ed ebbe il suo apice di produzione negli anni sessanta; la connotazione popolare è chiara fin dagli inizi, quando è dedicato al pubblico di musica melodica che abbraccia, quindi, uno spettro indiscriminato di gusti ed età; le differenze emergono invece alla metà degli anni sessanta, quando il musicarello svolta verso cliché di spensieratezza, presenta cantanti che si rifanno al rock and roll e al beat e si rivolge, dunque, ad un pubblico di giovanissimi, anche se non manca di riflettere la voglia ed il bisogno di emancipazione dei giovani italiani evidenziando qualche screzio generazionale. I film che iniziano il sottogenere schiettamente giovanilistico sono I ragazzi del juke-box del 1959 e Urlatori alla sbarra (1960) entrambi diretti da Lucio Fulci.
In questo senso il confronto è tra i cantanti tradizionali, i cosiddetti melodici (ad esempio Nilla Pizzi, Luciano Tajoli, Achille Togliani e Claudio Villa), e gli urlatori, nome che tra gli anni cinquanta e sessanta, periodo del boom economico, viene affibbiato, con connotazioni negative, alla schiera di giovani cantanti emergenti, Adriano Celentano e Mina in testa, nonché Fred Buscaglione, Tony Dallara, Joe Sentieri, Domenico Modugno tra i primi e più noti volti della scena iniziale del musicarello.
La personalità più forte fu proprio quella di Celentano, che, giovanissimo, già interpretò sé stesso in un film come La dolce vita (1960) di Federico Fellini. L’anno precedente, sempre sotto la direzione di Fulci, era stato il protagonista di I ragazzi del juke box e nel 1961 Piero Vivarelli gli affidò il ruolo principale in Io bacio… tu baci.
Mentre Fulci e Vivarelli svolsero un ruolo significativo come registi di questi primi film in cui, nonostante il generale clima di commedia, i giovani sono rappresentati come ‘ribelli senza causa’, insofferenti della tradizione e pronti a mettere in gioco tutto per condurre una vita diversa, questi film, annoverati tra i cosiddetti b-movies per via dei budget ridotti e della qualità incerta dei risultati, fecero la fortuna di numerosi sceneggiatori e registi tra cui Ettore Maria Fizzarotti, i fratelli Corbucci, Domenico Paolella, Sergio Sollima, Mario Mattoli, Ruggero Deodato, Enzo Trapani e costituirono il trampolino di lancio per autori emergenti.
Dopo il 1962, il grande successo internazionale dei Beatles e poi dei Rolling Stones modificò ulteriormente il quadro. Il modello estero contemporaneo è dato dai film con Elvis Presley con pellicole dal titolo: Il delinquente del rock and roll (Jailhouse Rock) del 1957 di Richard Thorpe o il precedente Fratelli rivali (Love Me Tender, 1956) di Robert D. Webb. Uno dei film pionieri del musicarello fu la versione per il mercato italiano del film musicale statunitense Go, Johnny Go! (1959) di Paul Landres con Jimmy Clanton, Chuck Berry, Ritchie Valens ed Eddie Cochran: uscito in Italia come Dai, Johnny dai! Le vendite raggiunte da questi gruppi, di gran lunga superiori alle vette toccate in precedenza da qualsiasi altro esecutore, fecero esplodere in Italia la musica beat, termine che diventò quasi subito sinonimo di anticonformismo giovanile. Sulla scena musicale, e quindi anche cinematografica, si affacciò così una nuova generazione di cantanti, cantautori e gruppi musicali che incontrarono rapidamente grande popolarità: tra i primi vanno ricordati Gianni Morandi, Caterina Caselli e Patty Pravo. Fu proprio la popolarità di questi nuovi interpreti a spingere i produttori cinematografici a occuparsi di loro. Il più tempestivo fu Goffredo Lombardo, il titolare della longeva Titanus, che lanciò prima Gianni Morandi con In ginocchio da te (1964), e poi Caterina Caselli con Nessuno mi può giudicare (1966).
Ad ogni artista il proprio stereotipo. In particolare, Mina vestì in maniera ricorrente i panni della giovane borghese insensibile alle costrizioni della ricca famiglia, pronta a sperimentare le scandalose sonorità del rock and roll (Io bacio… tu baci, 1962; I Teddy Boys della canzone, 1960).
Il carattere e l’aspetto sbarazzino di Rita Pavone hanno permesso che le fossero cucite addosso le sceneggiature di alcuni musicarelli di varia ambientazione (Rita, la figlia americana, 1965; Little Rita nel West, 1967; La Feldmarescialla, 1967).
Mentre a Gigliola Cinquetti, il cui aspetto rammentava quello di una giovane Audrey Hepburn, venivano affidati ruoli da ragazza “a modo” (Dio come ti amo!, 1966), Caterina Caselli prestava volto e voce a film in cui, grazie alla sua naturale e vivace presenza scenica, interpretava sempre una giovane piena di grinta, sogni e dinamismo.
Se Little Tony è stato l’archetipo del “ragazzo col ciuffo”, teddy boy dal cuore d’oro per eccellenza (Riderà, 1967; Zum Zum Zum – La canzone che mi passa per la testa, 1968), la Caselli ha incarnato il prototipo della “ragazza moderna”, fiduciosa nell’amore e nell’amicizia, impegnata in concorsi canori (Nessuno mi può giudicare, 1966; Perdono, 1966; Io non protesto, Io amo, 1967).
Verso la metà degli anni Sessanta i musicarelli erano quindi un curioso intreccio tra amori da fotoromanzo, comicità popolare, musica di successo e accenni timidi a tensioni generazionali. Sembrerebbe un passo indietro rispetto alla ribellione dei rock movie americani e agli stessi film italiani degli ‘urlatori’ prodotti qualche anno prima. Ma la rivolta covava sotto la cenere. E il primo sintomo delle potenzialità ribellistica di queste canzoni apparentemente innocue, fu fornito dall’interesse di Marco Bellocchio, il regista che meglio di ogni altro colse il malessere diffuso in una società apparentemente opulenta e appagata, il disagio che avrebbe successivamente dato vita alla contestazione del 1968 e degli anni successivi.
Infatti, con l’arrivo del 1968 e la contestazione studentesca il musicarello si avviò al declino, perché la rivolta generazionale divenne esplicitamente politica e al contempo non esisteva più una musica diretta indistintamente a tutto il mondo giovanile.