Burghy: il fast food italiano che sfidò l’America con la cultura del panino a stelle e strisce

Scritto da il 26 Luglio 2024

Burghy fu il fast food di culto dei Paninari di San Babila, insegnò agli italiani la cultura del panino a stelle e strisce incarnando il modello americanista

Milano, 1982. Il Duomo è più grigio del solito. La città è reduce da un decennio infernale, quello dei cosiddetti Anni di piombo, iniziati nel 1969 con la strage di piazza Fontana e terminati nel 1979 con l’omicidio Ambrosoli. C’è voglia di riscatto, di leggerezza. Così gli Anni ’80 iniziano all’insegna della futilità, della moda e dell’euforia. È proprio in questo periodo che in Italia, a Milano, arriva un nuovo modo di concepire la ristorazione che coincide con l’immaginario di un’epoca. 

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Le origini di Burghy in una Milano da bere consumista e “americanista”

Quando Burghy fa il suo esordio in piazza San Babila, nel 1982, è un fast food che guarda al modello americano, esperimento avviato dalla catena di supermercati GS (intuizione preceduta nel centro della città solamente da Elio Fiorucci, il quale, già alla metà degli anni Settanta aveva importato l’idea di un hamburgeria pop). 

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Agli esordi, Burghy si ritrova, dunque, ad occupare un settore quasi inesistente in Italia. Le grandi catene alimentari americane non sono infatti ancora sbarcate nello stivale e quelle poche alternative locali del genere non hanno saputo affermarsi. Il successo di Burghy, viceversa, è esplosivo, complice di quella forte influenza americana. Sono infatti questi gli anni in cui il pensiero consumista e capitalista pervade gli italiani, in maniera molto più intensa e martellante che durante i tempi del Boom. Ed ecco che Burghy si posiziona perfettamente nel mezzo di questa rivoluzione sociale americanista.

Burghy, con la sua anima pop, conquista i paninari

A Burghy non vi si deve riconoscere solamente il primato di aver colto quella sete di consumismo e quella rivoluzione sociale americanista della Milano da bere d’un tempo bensì anche quella di promotore di un fenomeno di costume che prende il nome di “paninari”. Dopo un decennio travagliato, culturalmente e socialmente, c’è infatti voglia di disimpegno. E Burghy, con la sua anima pop, identifica un modello di consumismo d’importazione che a Milano diventerà fenomeno di costume ad appannaggio degli adolescenti dell’epoca, presto ribattezzati paninari (leggi anche: Paninari anni ’80, lo stile intramontabile della Milano bene)

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L’acquisizione di Burghy; il Gruppo Cremonini

Se dal punto di vista commerciale Burghy è un grande successo, (si avviò infatti a diventare una catena gestendo ben 6 punti vendita tra il centro città e le aree limitrofe) in realtà la società, incapace di gestire un successo così travolgente, si trova ad accumulare debiti su debiti, senza che i guadagni riescano a superare le spese. La società si vide così costretta, nel 1985, alla concretizzazione di una cessione al Gruppo Cremonini, azienda modenese leader nel settore alimentare e proprietà di Luigi Cremonini.

Dal momento dell’acquisizione, Burghy può godere di un secondo periodo d’espansione: il Gruppo Cremonini acquisisce altri fast food presenti sul territorio, come Quick e Burger One, arrivando a dominare tutto il settore con innumerevoli azzardi imprenditoriali. È infatti sempre Burghy il primo fast food Drive In d’Italia, del 1988. La forza del brand è tale al punto che le catene americane McDonald’s e Burger King, arrivate timidamente in Italia, non riescano ad imporsi sul mercato, restando seconde. Burghy ha infatti il notevole e decisivo vantaggio di giocare d’anticipo e in casa.

L’amministrazione di Burghy passa sotto le mani di Vincenzo Cremonini, figlio di Luigi, appena tornato dagli Stati Uniti; certamente un azzardo non da poco in quanto il giovane è per sua ammissione “senza alcuna esperienza se non quella di aver mangiato hamburger per tre anni e mezzo”.

Mio padre mi disse: abbiamo preso una nuova società, Burghy, che ha sede a Milano. Siccome tu hai finito di studiare, andrai là a gestirla. All’inizio quello è stato tutt’altro che un favore, perché l’unica accertata capacità del sottoscritto era l’aver mangiato per tre anni e mezzo gli hamburger negli Stati Uniti. Non avevo un curriculum adatto per gestire una società che allora perdeva quasi quanto fatturava. Col senno di poi devo dire che l’essere stato buttato così nella mischia ha fatto in modo che spiegassi le ali e provassi a volare”.

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L’acquisizione di Burghy; McDonald’s

Ma non tutto è destinato a durare. Per quanto i guadagni annui di considerevole profitto, la società è di nuovo costretta ad indebitarsi e non di poco. Per McDonald’s Italia è vitale cogliere l’occasione al balzo dal momento che Burghy è l’unico ostacolo che impedisce alla società di svilupparsi nella regione; propone quindi un accordo che Cremonini è costretto ad accettare.

A giustificare la vendita, ci ha pensato Vincenzo Cremonini, da molti considerato padre della catena:

Burghy, che è stata la mia prima grande esperienza lavorativa, operava in un settore, la ristorazione veloce, nel quale i brand internazionali inevitabilmente nel medio-lungo periodo avrebbero dominato la scena. Davanti a questa consapevolezza avevamo sviluppato un modello di business in virtù del quale il concorrente internazionale sarebbe stato costretto ad acquisirci per prendersi il mercato. […] Fosse rimasto un business domestico avremmo perso molte opportunità. […] E’ stato doveroso per Burghy convolare a nozze con il leader. […] Quella cessione è stata una fortuna per chi ha comprato come lo è stata per chi ha venduto”.

Nel 1996, dopo 15 anni dalla fondazione, il marchio Burghy passa dunque per la seconda volta di mano e stavolta per svanire. 

L’ultima insegna Burghy viene spenta nel marzo 2007, dopo 26 anni dalla fondazione, e con essa si spegne anche il sogno di quel marchio italiano che seppe tener testa ad alcune delle più grandi multinazionali al mondo.

Operazione nostalgia: Burgez rievoca Burghy

Non sono rari gli esempi di fast food all’italiana che hanno conquistato credito e seguito. A Milano, dal 2015, Burgez è idealmente l’erede del primo esperimento Burghy. Fondata da Simone Ciaruffoli, la catena si rivela un caso di imprenditoria intelligente, devota al modello newyorkese. Un’intuizione nostalgia, che, come specifica Ciaruffoli, è solo “un’idea simpatica per omaggiare e ricordare Burghy”. Che, dunque, non tornerà (e neppure potrebbe, dal momento che il marchio è ancora di proprietà di McDonald’s). Di sicuro, una riuscita operazione pubblicitaria per Burgez, che ancora una volta fa parlare di sé.


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